NBA

Ciao, piccolo Kobe

A volte ci chiediamo come una superstar NBA possa essere stato il tuo compagno di spogliatoio. A volte ci chiediamo se quello lì che fa numeri da circo in tv è proprio l’amico che rideva e scherzava con te. A volte ci chiediamo come, da ragazzini in erba con la passione comune per la palla a spicchi, uno si ritrova sotto i riflettori globali e l’altro a trascorrere una tranquilla vita in terra padana. Sliding doors. Ma una cosa era già chiara: Kobe allora non era un campione, ma voleva diventare un campione. E questo ha fatto la differenza.

Ma andiamo per gradi. Correva l’anno 1989. Un uggioso Novembre. Dalle porte dello spogliatoio della palestra di via Samoggia all’allenamento dei “Propaganda” delle Cantine Riunite spunta un ragazzino timido e minuto. E’ il figlio del grande Joe “Jellybean” Bryant, personaggio istrionico dalla simpatia contagiosa nonchè ex stella del basket USA appena sbarcata in via Emilia a stagione in corso come secondo “colored”. Oggi può fare specie ma allora la serie A nostrana era la prima scelta dei giocatori in uscita dal mondo dei professionisti a stelle e strisce e capitava che arrivassero campioni di questo calibro. Ovviamente si crea subito scompiglio e grande curiosità fra noi ragazzini. Più forse per il papà che per quel piccoletto che un giorno avrebbe fatto ricordare il loro cognome a tutto il mondo per le sue gesta sul parquet. Kobe è gentile, umile, educato. A volte schivo. Ma sa da subito trasmettere una grande passione, quasi viscerale, per la pallacanestro. La sfera arancione ama prenderla spesso in mano e non la molla mai. E questo gli costa tanta panchina da scaldare in una società che già allora aveva il dogma del gioco di squadra nel suo fiore all’occhiello, il settore giovanile. Lì si insegnava basket, sotto la guida di tecnici sulla rampa di lancio quali Andrea Menozzi e Max Menetti. Lì Kobe ha imparato tanto. La visione di gioco. La difesa. Il passaggio. Il tagliafuori a rimbalzo. I fondamentali su cui ha costruito una carriera da mille e una notte. Lui era già un giocoliere. Grandi abilità di ball handling. Come il padre. Un tiro che già allora sgorgava naturalmente dai suoi polpastrelli. Ma lì ha imparato il resto. Altrimenti coach Cantarella lo teneva a scaldare la panchina e infatti spesso e volentieri gli preferiva in quintetto, nello spot di guardia tiratrice, il suo amico fraterno Christopher Ward. Ma quei due anni per Kobe sono stati formativi ed hanno contribuito in maniera determinante a costruire il suo bagaglio tecnico ed a renderlo differente nella qualità del gioco espresso rispetto ai futuri avversari cresciuti nei playground USA a forza di 3 vs. 3.

Il piccolo Kobe festeggia con papà Joe i 6.000 punti realizzati in serie A
Il piccolo Kobe festeggia con papà Joe i 6.000 punti realizzati in serie A

“Un giorno tornerò in America e giocherò nell’NBA” era il suo ritornello sotto la doccia dopo ogni allenamento. E capite bene, che per noi ragazzini reggiani che l’America stavamo studiano a scuola dove fosse e Magic Johnson, Larry Bird e Michael Jordan li vedevamo se andava bene su Telecapodistria, non poteva che essere uno scherzo. “Certo Kobe, certo…”, lo si sbeffeggiava. Ma lui ci credeva e si arrabbiava. Alla fine ha avuto ragione lui. Perché la forza di volontà, la passione per quello che faceva, la sua forte leadership l’hanno portato dove lui da bambino sognava di arrivare.

“Jumbo” diceva sempre dalla panchina quando gli avversari andavano in lunetta per fargli sbagliare i tiri liberi. Era un sorta di talismano che aveva coniato per fare gruppo. Ci si vedeva tre, quattro pomeriggi alla settimana fra partite ed allenamenti. Trasferte anche impegnative in pullman granturismo tutti insieme. Una volta mi disse anche che ero uno dei suoi migliori amici. Ricordo ancora l’attimo. Mentre facevamo la gara di tiri liberi alla Cassala. Ma questo lo lasciamo nell’album dei ricordi da raccontare ai nipotini. Nei due anni insieme ci siamo divertiti. La squadra era forte. In provincia non ce n’era per nessuno. A volte una superiorità imbarazzante. Ricordo addirittura una partita vinta 164-4. Poi si andava in primavera ad affrontare basket city, le bolognesi. E lì, nella loro tana, era un’altra storia. Il grande Joe Bryant per le partite che contavano irrompeva negli spogliatoi e, con una pacca sulla spalla, ti dava la giusta carica per affrontare la sfida, a tutti noi e al futuro campione.

Kobe recentemente a Milanello
Kobe recentemente a Milanello

Il piccolo Kobe si era anche appassionato alla mania tutta italiana del “soccer”, come lo chiamano al di là dall’Atlantico. E come tutti i ragazzini non poteva esimersi dal scegliere una squadra del cuore. Erano gli anni dell’invincibile armata rossonera di Sacchi ed i tre tulipani. La scelta fu obbligata. Una fede che dice avere ancora nel cuore. Un altro momento che porto nel cassetto dei ricordi è il torneo internazionale di Torino al parco Ruffini. Giugno 1990. A pochi chilometri di distanza giocava in contemporanea il Brasile nelle notti magiche del Mondiale di calcio di casa nostra. La competizione era una vetrina di prestigio. C’era la “creme” del basket giovanile tricolore oltre a squadre blasonate dell’Est Europa. Maestri dell’Unione sovietica compresi. Con Kobe ci eravamo accordati per andare in camera insieme nel convitto delle suore che ci ospitava a Caselline. Poi ordini di scuderia ci divisero. Kobe sentiva il palcoscenico e fuori dagli schemi diede spettacolo. Ci trascinò all’ottavo posto in un tabellone da 64 partecipanti. Stava nascendo il campione che conosciamo. Anche se allora nessuno, ma proprio nessuno l’avrebbe detto.

In estate volò in America come tutti gli anni faceva, a capire cosa lo avrebbe aspettato qualche anno dopo. Poi, dopo un’altra stagione trascorsa insieme ed in cui era diventato parte integrante del nostro gruppo, di Kobe si persero le tracce. Papà Joe era rientrato definitivamente negli States chiudendo la sua carriera nel Belpaese. Passarono sei anni e un giorno accendendo Tele+ vidi che fra i partecipanti allo “Slam dunk contest” dell’All Star Game NBA 1997 di Cleveland c’era un certo Kobe Bryant con la maglia gialloviola. #8 Lakers. Era proprio lui. Il nostro amico Kobe. Brividi infiniti. Kobe vinse. Una stella era sulla rampa di lancio per regalare emozioni a tutto il pianeta per un ventennio, diventando il terzo realizzatore NBA di sempre. Il resto non è necessario raccontarlo perché è già storia del gioco.

Tutti gli "high" del Black Mamba in NBA
Tutti gli “high” del Black Mamba in NBA

Ferretti – Bertoluzza – Caronti – Ferraroni – Boschetti – Fontanesi – Adel Attia – Baroni – Borelli – Morani – Ward – Valeriani – Sanibondi – Bryant. Per noi Kobe resta quello di quel gruppo. Il nostro amico e compagno di squadra. E chissà che nella sua dolce pensione anticipata non trovi il tempo di fare un salto da queste parti a salutare i suoi vecchi amici reggiani. Ma intanto, nel #Kobe Day, ti mandiamo un immenso grazie, … piccolo Kobe.